G. Pascoli a Massa


 DA: Gian Luigi Ruggio "Giovanni Pascoli, Tutto il racconto della vita tormentata di un grande poeta", Simonelli, Milano, 1998.

Era il 18 settembre 1884 quando a Giovanni Pascoli parve di toccare il cielo con un dito. Era finito il periodo di Matera, quella povera città di trogloditi in cui visse così felice, sebbene così pensoso. Ora, come diceva il decreto ministeriale, avrebbe insegnato al Liceo Pellegrino Rossi di Massa. Ora, sarebbe andato a vivere nella città tirrenica profumata di aranceti. La città degli orti che circondavano ogni casa, anche la più modesta, la città che siede su lucide verzure, la città in cui voleva portare le due sorelle a vivere insieme con lui. Sì, forse stava per realizzarsi il sogno a lungo carezzato di ricostruire, almeno insieme con loro, quel nido di farlotti disfatto e disperso dalla tragedia del 10 agosto 1867.

[...]

Il 21 novembre 1884 in una lettera indirizzata alle due sorelle asseriva d'essersi assuefatto molto bene al clima di Massa dove il freddo, se c’è, è asciutto e il cielo azzurrissimo. E che anche nel suo cuore batteva il sole e le poche ombre che c’erano disegnavano ghirigori screziati di sogni e di felicità. Quindi proseguiva:

O felicità, quando trionferai piena e luminosa sulla mia vita? [...] Ho già acquistati in Bologna i mobili di ferro: quattro letti, bei materassi. [...] Alla fine del mese acquisto la biancheria da tavola e da letto. [...] A fine dicembre compro a Pisa i mobili di legno, molti o pochi, secondo le possibilità. [...] Spero farvi contente: che consolazione lavorare accanto a voi affaccendate, o cantanti motivi lontani di litanie! Verrete meco? 

[...]

Ma lasciamo che sia ancora Maria a raccontare leggendo i suoi appunti su tanti foglietti sparsi:

“Si arrivò a Massa il 3 maggio sul mezzogiorno, aspettati alla stazione con una comoda carrozza dal buon prof. Agnoloni, che ci accompagnò fino alla casa messa su da Giovannino con tanto amore e tante pene.

La casa, anzi la villa, era a metà di una grande chiusa (uno dei più begli “orti” massesi), in parte coltivata a viti e ortaggi e in parte ad aranceti e limoneti. Ne era affittuario un bravo contadino con numerosi figli tra cui quel Fiore ricordato nella poesia “Il Lauro” delle “Myricae ”. La villa aveva ai lati, da una parte un ’alta siepe di bosso, dall’altra una folta macchia di rose borraccine, allora in piena fioritura.

Giovannino diceva che, quando era costretto a rimandar continuamente di venirci a prendere, vedendo che esse avevano voglia di fiorire, le ammoniva così girando, loro intorno:

Soprassedete di fiorir, rosai!

che s ’altro dissi, ora cangiò mia voglia.

E le rose ubbidirono, pare!”

La camera riservata a Ida e Maria era ampia e inondata di sole, sopra il giardino. Quella di Giovanni, più piccola, a tramontana, beneficiava però di un terrazzino sul quale si affacciava una gran pianta di limoni. Nel salotto da pranzo trovarono la tavola apparecchiata, mentre dall'attigua cucina proveniva uno stuzzicante odore di stufato che una gentile signora, moglie di un impiegato, amico di Giovanni Pascoli, si era offerta di preparare. Mangiarono tutti e tre con buon appetito, mentre i loro occhi si riempivano di lacrime al pensiero dei loro genitori che chissà quale gioia avrebbero provato se li avessero potuti vedere tutti e tre finalmente riuniti. Cominciò così, quella nuova vita che per Pascoli, malgrado alcune parentesi di serenità, mai più godute in seguito, continuò a essere irta di spine.

Per cominciare, si sparse subito un chiacchiericcio che, se preso con spirito, avrebbe potuto finire in una bella risata e, invece, fece infuriare Giovanni oltre misura. Si diceva, insomma, che quel professorino se la passasse [...] allegramente, visto che in casa aveva una specie di harem. E che quelle due ragazze che teneva con sé le avesse addirittura rapite. Pascoli sembrò uscire letteralmente dai gangheri. Ma poi, per fortuna, la grassa risata che, informato, ci fece (lui, sì) il caro amico professor Agnoloni, rimise tutto a posto.

Le due sorelle vivevano circondate dalla tenerezza del fratello che intendeva, nei limiti del possibile, soddisfare tutti i loro desideri. Sapendo che amavano gli animali, Giovanni regalò loro una graziosa gattina e poi un canoro uccellino (un fanello) del cui canto si beavano, ma che serviva anche come sveglia al fratello, che soleva alzarsi all'alba per recarsi, sempre col solito anticipo, al Liceo Rossi. E poi dolci e confetti, di cui Maria era ghiotta. Le trattava sempre come se fossero ancora piccole. Una notte, in cui infuriò un temporale, stette sempre affettuosamente accanto a loro che erano un po' spaventate (a Massa, sotto le Apuane, ci vengono tuoni fortissimi). E siccome la tempesta durò sino all'alba, lui non si spogliò neppure e, infilatosi il soprabito, uscì direttamente per andare a scuola. La domenica le conduceva a Messa e a passeggio. La sera le portava a sentire della buona musica, mentre cercava sempre di non far trasparire troppo le difficoltà economiche che lo affliggevano continuamente.

La fama della sua laboriosità e della sua generosità giunse persino alle orecchie del Vescovo di Massa, Monsignor Tommasi. che volle conoscere i tre fratelli e, sapendo dei sacrifici di Giovanni, dispensò tanto lui che le sorelle, dall'obbligo delle astinenze alimentari richieste dalla Chiesa.

Il comando di casa fu affidato alla sorella anziana, Ida, che divenne pertanto la reginella di famiglia. Giovanni le regalò un orologino d'argento perché segnasse le ore più liete, accompagnandolo con una poesiola intitolata Alla gentile massaia di casa Pascoli. Ogni fine mese, le consegnava il danaro per l'amministrazione di casa. Se i soldi finivano prima, gliene consegnava degli altri facendoseli anticipare dallo stipendio.

A Massa, Pascoli trascorreva una vita intima. Raramente si faceva vedere in città, preferendo riunirsi con pochi amici, come Agnoloni e Piero Chiappè, nell’orto della trattoria di Battista Milani al Ponte, luogo lontano dal centro. Battista Milani, un bel vecchio ultrasettantenne, era quello che si potrebbe definire una vera istituzione per il buon vino. Pascoli gli voleva bene tanto che, una volta, per il suo onomastico, gli dedicò addirittura un sonetto (poi perduto). Altra osteria frequentata dal poeta era La Pergola, che oggi non c'è più e che era situata in una delle vie più solitarie del luogo.

Come insegnava, Pascoli, a Massa? Il primo giorno dell'anno scolastico 1884 - 1885 chiamò un alunno alla lavagna e gli dettò due righe di greco, il cui significato, pressappoco, era: Io sarò buono con gli agnelli, terribile coi lupi. Ma non mise mai in pratica la scomoda promessa. Piuttosto, durante la lezione, amava leggere con gli studenti passi dei classici, mettendo via via in risalto la bellezza del pensiero e della forma. Ma succedeva anche che s'infervorasse talmente da finire per tradurre tutto lui.

Non era molto contento della condotta dei suoi allievi, dai quali, tuttavia, non esigeva affatto l’immobilità assoluta ma, anzi, dava loro molta libertà di movimento. Raramente si arrabbiava ma, quando accadeva, si rabbuffava tutto, sgranava gli occhi, le guance si arrossavano mentre la mano tirava indietro nervosamente i capelli rossastri. Ma era una tempesta in un bicchier d'acqua.

Talvolta era perfino ironico nei giudizi. Di tre alunni, noti per il loro scarso profitto, una volta disse che l’uno studiava, ma non aveva ingegno, l’altro che aveva ingegno, ma non studiava e, infine, che il terzo non aveva né ingegno, né studiava.

Criticava nei giovani, dinoccolati liceali, la mancanza di una anima ideale, distolti dalle molte frasche con cui s'imbottivano i giovani di allora. Pascoli liceale era indulgente agli esami. A scuola andava puntuale, coi libri sotto il braccio. Vestiva dimesso, se non addirittura trascurato.

Grande fioritura poetico - letteraria, quella di Pascoli a cavallo tra il 1884 e il 1885, a Massa. Pur se piacevolmente, l’amico Fiore continua ad affliggerlo col chiedergli continuamente lime e limature alle sue poesie. Ma chi si impegna a pubblicare i Bordarini di Severino Ferrari, chiede, come contropartita, che lui fornisca edizioni corrette e pulite delle Myricae Pascoliane.

“Mandamele, sennò non ti scrivo più.”

E Pascoli, paziente, in un sospiro: “Eccole, te le mando proprio per soddisfare il tuo capriccio.” Manda a lui II Fonte (Myricae) ed Echi di cavalleria (raccolto in Poesie varie e appartenente al ciclo Lunare o Lunarico).

[…]

Pascoli pubblica sulla rivista livornese edita da Raffaele Giusti e curata da Targioni-Tozzetti, la Corona di madrigali L’amorosa giornata (in Poesie Varie) cui seguono i sonetti, inclusi poi in Myricae, il Fonte e il Bosco. E ancora i due madrigali: Stella Diana (in Poesie Varie) e Orsa Maggiore. Poi, in occasione delle nozze dell’amico Giulio Vita, il poeta scrive tre apologhi che gli dedica. Apologhi cuciti in un piccolo opuscolo massese: I due fuchi, L ’uccellino e II cacciatore, La rana e L ’usignolo. 

[…] 

Così, tra alti e bassi, si consuma il periodo massese. Un periodo che, a differenza di quello di Matera (sostanzialmente di riflessione e preparazione), sarà stato per le bellezze naturali, o per la vita divinamente monotona che vi si conduceva, fu quello che segna il ritorno alla poesia, uno sboccio che prepara la fioritura livornese. 

 

Allievi massesi di Giovanni Pascoli

 Allievi di Pascoli